giovedì 18 novembre 2010
Verso il nulla.
Ho perso il conto: quattro cinque ore, me ne aspettano altrettante. Il paesaggio è nudo e scarno, simile a un Ür -Abruzzo, una serie di altopiani circondati da montagne, ma alla decima potenza. Ci siamo fermati spesso, devi bere continuamente acqua qui, respirare non basta a incamerare ossigeno. Le latrine sono indescrivibili ma se non ci sono è anche peggio, guida e driver che guardano da un'altra parte e fumano una sigaretta, io sotto un ponte o dove capita, morta di vergogna, se solo fossi un uomo, maledizione.
Il passo Khar-o-la, 5500 mt., un paio di tristi yak bardati a festa per farsi fotografare con i turisti, due banchetti di poveri souvenir allestiti sullo spiazzo dove i pulmini fanno una sosta. File e file di bandierine colorate pregano per i peccati del mondo, il vento le sbatacchia senza sosta. Sakyamuni, prega per noi, Maitreya, prega per noi, Amitabha, prega per noi. A Lhasa e Shigatse era tutto così rituale e meccanico, con una sua enorme forza icastica, ma quelle folle ignoranti che roteavano i mulinelli da preghiera con lo stesso fervore isterico di una donnetta a S.Giovanni Rotondo non mi davano grandi emozioni. Qui, questi poveri filamenti straccioni abbandonati nel nulla eppure sventolanti mi commuovono e mi sembrano esattamente quello che la fede dovrebbe essere.
La povertà spaventosa dei pochi villaggi incontrati, e chissà cosa sarebbero senza le strade cinesi, senza le scuole cinesi, senza i piloni cinesi dell'elettricità che arrivano ovunque. Quattro tacche di telefonino anche qui, questa è Cina, punto, e te lo ricordano in tutti i modi di cui dispongono. Caserme enormi nel nulla, fecero così anche i Romani per dimostrare la forza dell'Impero. Assurdi cartelli "please, respect the environment", da che pulpito, e "live together in harmony" sbucano improvvisamente sul ciglio di strade vuote e silenziose. Ecco, il silenzio di questo luogo è qualcosa di irreale, o meglio, lo sarebbe se i miei due compari non ascoltassero in loop un dvd di cantante pop locale in stile ninod'angelo goes to Bollywood, con tanto di balletti karaoke a video. La guida mi dice strizzando l'occhio che sarebbe proibito ascoltarlo in quanto i testi sono molto diretti e crudi (???). E' la prima volta in vita mia che mi trovo a favore della censura. Rolling Stones mey you? Ecchettelodicoaffà.
lunedì 15 novembre 2010
Sette giorni in Tibet 4
Vista l'affascinante Gyantse, minuscola città-monastero-fortificata, una volta ricca e potente, poi distrutta per la maggior parte dai cinesi. Ora ha la bellezza malinconica di quelle piccole fortezze solitarie disseminate nello sfondo di tanti quadri italiani del Rinascimento.
Gyantse fu anche teatro della più ridicola battaglia inglese, con la quale i britannici, al comando del maggiore Francis Younghusband, invasero formalmente il Tibet nei primi anni del Novecento. Ridicola perché i tibetani non avevano la più pallida idea di chi fossero quei tremila tizi con strani carri in ferro e fucili del tutto inutili, quando loro vantavano degli amuleti benedetti dal Dalai Lama che avrebbero dovuto proteggerli dalle pallottole. Non funzionarono, e in quattro minuti netti gli inglesi massacrarono settecento avversari.
Vista l'orribile moderna Shigatse, con l'imponente e ricchissimo monastero Tashilumpo sede nominale del Panchen Lama, l'amico-rivale-successore del Dalai, il dioscuro allevato dai cinesi che rinnegò la Cina tre giorni prima di morire improvvisamente e misteriosamente. Il piccolo nuovo Panchen seienne in cui si reincarnò fu rapito insieme ai genitori e portato in località segreta, il più giovane prigioniero politico del mondo, mai più riapparso. Un nuovo sorridente fanciullo, questa volta 'scoperto' dai cinesi con reincarnazione approvata doc, è cresciuto a Pechino, aspettando di diventare il reggente del Tibet non appena il Dalai lascerà il suo ennesimo corpo terrestre. Dio sa cosa succederà allora.
Tashilumpo è esattamente come sarebbe la ricca abbazia de "Il nome della rosa" se Eco l'avesse ambientata in Tibet. E in effetti tutto il viaggio sembra un tuffo in una sorta di medioevo continuamente violentato dall'innesto cinese, una società arcaica che ha subito un crash frontale con la modernità più sfrenata. Le cinture di sicurezza e gli air bag non hanno funzionato, esattamente come gli amuleti del 1905.
Cenato con altri due delle ong, così altezzosi verso chi non ha fatto il Darfur e il Mozambico, così pieni di superiorità morale verso il resto del mondo che ho fatto fatica a non alzarmi e andarmene. Tutta la sera in stile "Sai, quando ti abitui a fare il chirurgo con le rane che saltano qua e là in sala operatoria, cosa vuoi..." "Ma qui è lusso, dovevi vedere i campi profughi in Rwanda...". Io il massimo dell'unità di crisi che posso vantare è un backstage con il truccatore isterico perché la modella aveva un brufolo, quindi mi taccio che è meglio. Il risultato è che stramangio cupamente bistecche di yak, mi fumo una sigaretta e scolo persino una birra Lhasa, sciacquatura di piatti, ma il giorno dopo sembro reduce da una gara a "chupitos de vodka" con un camionista spagnolo.
Che hangover! Ma perché devo sempre fare la splendida, anche a 3840 mt? Scendo barcollando nella sala per la colazione, dove scopro agghiacciata che non esiste l'ombra di colazione, almeno come la intendiamo noi.
"Ka-fei you ma? Mei you
Niu-nai you ma? Mei you
Sei chà you ma? Mei you
Egg? Bread? Jam? Bacon? Pancakes? Cookies? Mei you" (che, ormai l'avrete capito, vuol dire ciccia, niet, manco morti, impìccati, siamsenza, nuncisà)
Dal tavolone arrivano orribili odorini: ravioli fritti, verdure saltate, zampe di pollo bollite, congee di riso con sottaceti.
Dopo mie suppliche arriva una fetta di pane in cassetta molliccio e che sa di alcool e, non si vedeva l'ora, il piatto nazionale tibetano, la tsampa. Trattasi di pappa d'orzo mischiata con acqua calda e... indovinate? Burro di yak. Dopo due bocconi corro a vomitare l'anima.
Nella hall la guida mi squadra preoccupato. Il mio abituale pallore cinereo è sostituito da un verdognolo ancora meno invitante. Sicura che voglio partire? Sicura. Voglio vedere l'Everest.
lunedì 1 novembre 2010
Sette giorni in Tibet 3
Immortalare Lhasa risulta piuttosto complesso in quanto è vietatissimo fotografare i militari ma appena punti la macchina da qualche parte ti ritrovi almeno un paio di AK47 nell'inquadratura, con uno strano effetto comma 22.
Come se non bastasse la città è attraversata da un flusso costante di pellegrini che compiono la Kora, il pellegrinaggio intorno ai luoghi sacri da svolgersi in senso orario. Il problema è che le folle sono tipo Lourdes, dunque fermarsi a un angolo di strada per scattare un'immagine è operazione del tutto vana (lo dico solo perché così quando posterò un paio di fotine non starete tutti lì a dirmi che fanno schifo). Lo shock principale, a parte i kalashnikov, è però di tipo olfattivo: nel suo splendido "Segreto Tibet", il buon Fosco Maraini aveva messo in guardia dal foetor tibeticus, ma devo dire che la realtà supera ogni immaginazione.
Il fatto è che l'intera vita tibetana sembra reggersi sullo yak e soprattutto sul burro dello stesso, rigorosamente rancido: per strada ne offrono enormi tocchi da dieci chili; i templi ne vendono centinaia di sacchetti perché le lampade votive vanno a burro; gli stessi ex-voto sono fatti di burro, modellato tipo das e colorato poi con polverine sgargianti; le donne se lo spalmano in faccia per proteggersi dai rigori del clima, e lo pettinano fra i lunghissimi capelli per nutrirli e tenerli a posto. Insomma, non si resiste.
Peccato poi, perché le ragazze secondo me sono bellissime... trecce lunghe e nere, bei colli slanciati, visi con zigomi duri e sorrisi dolci, un'aria fiera e un incedere molto lontano dallo sgraziatissimo tacchettìo delle cinesi. Quasi tutte vestono con l'abito tipico tibetano, e i capelli sono variamente acconciati a seconda delle zone di provenienza.
Tutti, donne e uomini, indossano gioielli di corallo, turchese e ambra, a volte intessuti nei capelli. Devo dire che l'effetto è splendido, mi ricordano un po' colori e tratti andini, molto più belli a vedersi, però. Cena con una persona di una ong che mi racconta un po' di come sia dura vivere lì durante l'inverno, quando ti svegli con -10° nella stanza (non c'è il riscaldamento), tutti i ristoranti e bar a parte quello in cui siamo chiudono e in generale la città va in letargo. Non esistono supermarket che vendano cibo straniero, a parte che per l'altitudine la pasta ci mette ore per cuocere. Non sarebbe il peggio, però, se non fosse che il corpo a quelle altezze impazzisce: io pensavo bastassero due-tre giorni per acclimatarsi, invece dopo qualche mese ti ritrovi con iperproduzione di globuli rossi, insonnia cronica, tachicardia, pressione a mille e in generale stai a pezzi. E io che mi sentivo eroica a vivere così per una settimana!
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