Finalmente siamo al campo base, che pure non è esattamente il campo base ma ne dista 4 km che faremo l'indomani.Una fila di tende disposte a ferro di cavallo, jeep parcheggiate davanti e due latrine in fondo. Davanti alle tende pomposi cartelli annunciano i vari "Sheraton", "Snowland" e "Yak Hotel". Noi staremo nell'Hotel California, il che mi farebbe ghignare parecchio se avessi ancora la forza di farlo. L'interno ospita sei giacigli in uno spazio unico con stufa centrale. Per fortuna due grosse teiere sono già sul fuoco e mi viene offerto del tè al burro di yak (burro, sale, soda, tè, acqua calda frullati insieme) che sorbisco avidamente.
E' il momento di dire la triste verità sulle tragiche spedizioni Everest: almeno metà degli alpinisti morti a mio parere non sono mai saliti sulla montagna, ma sono deceduti per le esalazioni mefitiche della stufetta a carbone più sterco secco di yak, poi pareva brutto dirlo a casa e quindi si sono inventati la montagna assassina (come in guerra, mica ti arrivano le lettere che raccontano del fulmineo attacco di dissenteria, sempre eroiche morti in battaglia, che diamine!)
Dopo aver cenato con una scatoletta di tonno mi sdraio con piumino, cappello e guanti sul giaciglio. La proprietaria mi seppellisce sotto sei coperte e questo e quanto, bonne nuit.
Che si rivela invece un inferno, in parte per il freddo e l'altitudine, siamo a 5150 mt, in parte perché improvvisamente ho dei flash agli occhi. Panico: ricordo distintamente l'oculista avvisarmi di chiamarlo in qualunque momento in caso di lampeggiamenti, è una cosa grave. Non riesco più ad addormentarmi, ovvio, il resto della notte passa in dialoghi immaginari con Hillary e Tomas Olsson, o con altrettanto immaginari nipotini che chiedono alla vecchia nonna cieca di raccontargli ancora una volta come ha perso gli occhi sull'Everest. Un incubo, insomma.
La mattina dopo sono completamente devastata, per fortuna ho un medicinale che si usa appunto per abbassare la pressione oculare. Il solo fatto di trangugiare due pillole mi fa sentire un po' meglio. Grazie al cielo la tenda è sprovvista di specchi, devo essere al mio minimo storico. Peccato perché una volta uscita a fare un giretto esplorativo mi rendo conto che la ratio donne-uomini è almeno 1:40, roba che nemmeno l'elefantentreffen. Ora, non è che consigli alle single di catafottersi fin qui per circondarsi di presenza maschile, ma è pur vero che ritrovarsi per una volta senza vamp cinesi fra i piedi in mezzo a baldi alpinisti wannabe in condizioni a dir poco disgustose è veramente deprimente.
Ma bando alle frivolezze, la navetta per il campo base sta per partire. Un quarto d'ora di curve e finalmente siamo arrivati:
L'Everest fu chiamato così dal governatore generale dell'India, Andrew Waugh, che nel 1856 volle onorare il suo predecessore Sir George Everest. In realtà il suo vero nome è Qomolangma, che tradotto letteralmente vorrebbe dire "vacca principesca". Il senso era un po' troppo terra terra persino per i tibetani, che con uno sforzo poetico lo interpretano dunque come "Dea madre dell'universo".
Appunto per il ministero del turismo: io capisco il rispetto delle tradizioni locali, la salvaguardia linguistica delle minoranze ecc. ecc. Ma che vi costava aggiungere la parola "Everest" al cippo stradale? Uno arriva fin qui e non ha nemmeno la soddisfazione di farsi una fotina commemorativa. Mah...
Comunque è grandioso. Resto lì senza fiato a contemplare la montagna, a ricordare quanto ne ho letto, quanto ho desiderato arrivarci. E poi tutti quelli che ci hanno provato, quei pochi che ci sono riusciti. L'impulso che si prova è di scalarla a qualunque costo, lo so che sembra da folli egoisti, ma quando ci sei, quando te la vedi di fronte è l'unica cosa che pensi, tutto quello che ti lega alla vita normale sembra inutile, quasi fastidiosa zavorra. Credo che i veri eroi qui siano stati quelli che hanno saputo rinunciare a metà strada, quelli che quando hanno capito che non ce l'avrebbero fatta hanno resistito a questa sirena di pietra e di ghiaccio e sono tornati indietro senza raggiungere la meta, lo zenit, il punto più alto della terra e forse della propria esistenza. L'Everest è il simbolo dei nostri limiti, e della tentazione irresistibile, così umana, del superarli.
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3 commenti:
annichilita dalla tua lucida (?) analisi. Bellissimo post!
Ma sei troppo coraggiosa, full stop e basta. Dopo i lampi agli occhi, l'unico percorso comprensibile sarebbe stato correre verso un centro civilizzato con ospedale e/o oculista. Bel reportage,sembra di sentire la puzza dello yak! :))
urca.
e dopo questa attenta e disincantata disamina del tuo reportage, Buon Natale
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