venerdì 24 dicembre 2010
Alka -seltzer.
giovedì 9 dicembre 2010
Ai piedi del tetto del mondo.
Dopo aver cenato con una scatoletta di tonno mi sdraio con piumino, cappello e guanti sul giaciglio. La proprietaria mi seppellisce sotto sei coperte e questo e quanto, bonne nuit.
Che si rivela invece un inferno, in parte per il freddo e l'altitudine, siamo a 5150 mt, in parte perché improvvisamente ho dei flash agli occhi. Panico: ricordo distintamente l'oculista avvisarmi di chiamarlo in qualunque momento in caso di lampeggiamenti, è una cosa grave. Non riesco più ad addormentarmi, ovvio, il resto della notte passa in dialoghi immaginari con Hillary e Tomas Olsson, o con altrettanto immaginari nipotini che chiedono alla vecchia nonna cieca di raccontargli ancora una volta come ha perso gli occhi sull'Everest. Un incubo, insomma.
La mattina dopo sono completamente devastata, per fortuna ho un medicinale che si usa appunto per abbassare la pressione oculare. Il solo fatto di trangugiare due pillole mi fa sentire un po' meglio. Grazie al cielo la tenda è sprovvista di specchi, devo essere al mio minimo storico. Peccato perché una volta uscita a fare un giretto esplorativo mi rendo conto che la ratio donne-uomini è almeno 1:40, roba che nemmeno l'elefantentreffen. Ora, non è che consigli alle single di catafottersi fin qui per circondarsi di presenza maschile, ma è pur vero che ritrovarsi per una volta senza vamp cinesi fra i piedi in mezzo a baldi alpinisti wannabe in condizioni a dir poco disgustose è veramente deprimente.
Ma bando alle frivolezze, la navetta per il campo base sta per partire. Un quarto d'ora di curve e finalmente siamo arrivati:
Appunto per il ministero del turismo: io capisco il rispetto delle tradizioni locali, la salvaguardia linguistica delle minoranze ecc. ecc. Ma che vi costava aggiungere la parola "Everest" al cippo stradale? Uno arriva fin qui e non ha nemmeno la soddisfazione di farsi una fotina commemorativa. Mah...
- ... -
Penso che non arriverò mai più, e in un certo senso ha smesso di importarmi. Il paesaggio si è progressivamente rarefatto, poi scarnificato, infine semplicemente esaurito, come un bambino che si è stufato di disegnare.
Una pietraia senza fine, la macchina ogni tanto aggira buche troppo fonde, persino l'autoradio ha smesso di lamentarsi. Ogni tanto il nulla è interrotto da un posto di blocco: i pass delle guide e il mio passaporto ribaltati come se nascondessero un ribelle piegato a origami che non vede l'ora di scappare in Nepal. Ore fa fuori dal finestrino c'erano degli yak e rarissimi villaggi, ma è stato molto, molto prima. Sta calando la luce, fa sempre più freddo. Che ci faccio qui, si chiederebbe il buon Chatwin.
"Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che, in un certo momento siamo tanto lontani dal nostro paese... siamo colti da una paura vaga, e dal desiderio istintivo di tornare indietro, sotto la protezione delle vecchie abitudini. Questo è il più ovvio beneficio del viaggio. In quel momento siamo ansiosi, ma anche porosi, e anche un tocco lievissimo ci fa fremere fin nelle profondità dell’essere... Ecco perché non dovremmo dire che viaggiamo per piacere. Non c’è piacere nel viaggiare e io lo vedo come un’occasione per affrontare una prova spirituale... Il piacere ci allontana da noi stessi, come la distrazione nel senso pascaliano ci allontana da Dio. Il viaggio che è come una scienza più grande e grave, ci riporta a noi stessi."
Le parole di Camus sono la cosa più vicina a una risposta che riesco a trovare.
E un secondo dopo l'auto si ferma davanti a un filo di ferro teso a chiudere la strada. Una tenda da campeggio rossa sul fianco della montagna "Nobile e gli eroi della!" penso automaticamente, grata di avere allucinazioni familiari, ma è solo l'ultimo controllo passaporti. Non è nemmeno un soldato cinese, stavolta, è tibetano: nessun altro essere umano potrebbe resistere qui. Tira via il filo e mi fa cenno di scendere, scendo.
Mi indica qualcosa. Eccolo.
Una pietraia senza fine, la macchina ogni tanto aggira buche troppo fonde, persino l'autoradio ha smesso di lamentarsi. Ogni tanto il nulla è interrotto da un posto di blocco: i pass delle guide e il mio passaporto ribaltati come se nascondessero un ribelle piegato a origami che non vede l'ora di scappare in Nepal. Ore fa fuori dal finestrino c'erano degli yak e rarissimi villaggi, ma è stato molto, molto prima. Sta calando la luce, fa sempre più freddo. Che ci faccio qui, si chiederebbe il buon Chatwin.
"Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che, in un certo momento siamo tanto lontani dal nostro paese... siamo colti da una paura vaga, e dal desiderio istintivo di tornare indietro, sotto la protezione delle vecchie abitudini. Questo è il più ovvio beneficio del viaggio. In quel momento siamo ansiosi, ma anche porosi, e anche un tocco lievissimo ci fa fremere fin nelle profondità dell’essere... Ecco perché non dovremmo dire che viaggiamo per piacere. Non c’è piacere nel viaggiare e io lo vedo come un’occasione per affrontare una prova spirituale... Il piacere ci allontana da noi stessi, come la distrazione nel senso pascaliano ci allontana da Dio. Il viaggio che è come una scienza più grande e grave, ci riporta a noi stessi."
Le parole di Camus sono la cosa più vicina a una risposta che riesco a trovare.
E un secondo dopo l'auto si ferma davanti a un filo di ferro teso a chiudere la strada. Una tenda da campeggio rossa sul fianco della montagna "Nobile e gli eroi della!" penso automaticamente, grata di avere allucinazioni familiari, ma è solo l'ultimo controllo passaporti. Non è nemmeno un soldato cinese, stavolta, è tibetano: nessun altro essere umano potrebbe resistere qui. Tira via il filo e mi fa cenno di scendere, scendo.
Mi indica qualcosa. Eccolo.
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