venerdì 24 dicembre 2010

Alka -seltzer.

Ero così presa dai preparativi del cenone della vigilia che mi stavo scordando di farvi gli auguri. Buone feste! Arrivederci a gennaio... (burp, se continuo a mangiare così sarò la blogger più grassa della rete, magari finisco sul Guinness)

giovedì 9 dicembre 2010

Ai piedi del tetto del mondo.

Finalmente siamo al campo base, che pure non è esattamente il campo base ma ne dista 4 km che faremo l'indomani.Una fila di tende disposte a ferro di cavallo, jeep parcheggiate davanti e due latrine in fondo. Davanti alle tende pomposi cartelli annunciano i vari "Sheraton", "Snowland" e "Yak Hotel". Noi staremo nell'Hotel California, il che mi farebbe ghignare parecchio se avessi ancora la forza di farlo. L'interno ospita sei giacigli in uno spazio unico con stufa centrale. Per fortuna due grosse teiere sono già sul fuoco e mi viene offerto del tè al burro di yak (burro, sale, soda, tè, acqua calda frullati insieme) che sorbisco avidamente.

E' il momento di dire la triste verità sulle tragiche spedizioni Everest: almeno metà degli alpinisti morti a mio parere non sono mai saliti sulla montagna, ma sono deceduti per le esalazioni mefitiche della stufetta a carbone più sterco secco di yak, poi pareva brutto dirlo a casa e quindi si sono inventati la montagna assassina (come in guerra, mica ti arrivano le lettere che raccontano del fulmineo attacco di dissenteria, sempre eroiche morti in battaglia, che diamine!)
Dopo aver cenato con una scatoletta di tonno mi sdraio con piumino, cappello e guanti sul giaciglio. La proprietaria mi seppellisce sotto sei coperte e questo e quanto, bonne nuit.
Che si rivela invece un inferno, in parte per il freddo e l'altitudine, siamo a 5150 mt, in parte perché improvvisamente ho dei flash agli occhi. Panico: ricordo distintamente l'oculista avvisarmi di chiamarlo in qualunque momento in caso di lampeggiamenti, è una cosa grave. Non riesco più ad addormentarmi, ovvio, il resto della notte passa in dialoghi immaginari con Hillary e Tomas Olsson, o con altrettanto immaginari nipotini che chiedono alla vecchia nonna cieca di raccontargli ancora una volta come ha perso gli occhi sull'Everest. Un incubo, insomma.
La mattina dopo sono completamente devastata, per fortuna ho un medicinale che si usa appunto per abbassare la pressione oculare. Il solo fatto di trangugiare due pillole mi fa sentire un po' meglio. Grazie al cielo la tenda è sprovvista di specchi, devo essere al mio minimo storico. Peccato perché una volta uscita a fare un giretto esplorativo mi rendo conto che la ratio donne-uomini è almeno 1:40, roba che nemmeno l'elefantentreffen. Ora, non è che consigli alle single di catafottersi fin qui per circondarsi di presenza maschile, ma è pur vero che ritrovarsi per una volta senza vamp cinesi fra i piedi in mezzo a baldi alpinisti wannabe in condizioni a dir poco disgustose è veramente deprimente.
Ma bando alle frivolezze, la navetta per il campo base sta per partire. Un quarto d'ora di curve e finalmente siamo arrivati:

L'Everest fu chiamato così dal governatore generale dell'India, Andrew Waugh, che nel 1856 volle onorare il suo predecessore Sir George Everest. In realtà il suo vero nome è Qomolangma, che tradotto letteralmente vorrebbe dire "vacca principesca". Il senso era un po' troppo terra terra persino per i tibetani, che con uno sforzo poetico lo interpretano dunque come "Dea madre dell'universo".
Appunto per il ministero del turismo: io capisco il rispetto delle tradizioni locali, la salvaguardia linguistica delle minoranze ecc. ecc. Ma che vi costava aggiungere la parola "Everest" al cippo stradale? Uno arriva fin qui e non ha nemmeno la soddisfazione di farsi una fotina commemorativa. Mah...

Comunque è grandioso. Resto lì senza fiato a contemplare la montagna, a ricordare quanto ne ho letto, quanto ho desiderato arrivarci. E poi tutti quelli che ci hanno provato, quei pochi che ci sono riusciti. L'impulso che si prova è di scalarla a qualunque costo, lo so che sembra da folli egoisti, ma quando ci sei, quando te la vedi di fronte è l'unica cosa che pensi, tutto quello che ti lega alla vita normale sembra inutile, quasi fastidiosa zavorra. Credo che i veri eroi qui siano stati quelli che hanno saputo rinunciare a metà strada, quelli che quando hanno capito che non ce l'avrebbero fatta hanno resistito a questa sirena di pietra e di ghiaccio e sono tornati indietro senza raggiungere la meta, lo zenit, il punto più alto della terra e forse della propria esistenza. L'Everest è il simbolo dei nostri limiti, e della tentazione irresistibile, così umana, del superarli.

- ... -

Penso che non arriverò mai più, e in un certo senso ha smesso di importarmi. Il paesaggio si è progressivamente rarefatto, poi scarnificato, infine semplicemente esaurito, come un bambino che si è stufato di disegnare.
Una pietraia senza fine, la macchina ogni tanto aggira buche troppo fonde, persino l'autoradio ha smesso di lamentarsi. Ogni tanto il nulla è interrotto da un posto di blocco: i pass delle guide e il mio passaporto ribaltati come se nascondessero un ribelle piegato a origami che non vede l'ora di scappare in Nepal. Ore fa fuori dal finestrino c'erano degli yak e rarissimi villaggi, ma è stato molto, molto prima. Sta calando la luce, fa sempre più freddo. Che ci faccio qui, si chiederebbe il buon Chatwin.

"Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che, in un certo momento siamo tanto lontani dal nostro paese... siamo colti da una paura vaga, e dal desiderio istintivo di tornare indietro, sotto la protezione delle vecchie abitudini. Questo è il più ovvio beneficio del viaggio. In quel momento siamo ansiosi, ma anche porosi, e anche un tocco lievissimo ci fa fremere fin nelle profondità dell’essere... Ecco perché non dovremmo dire che viaggiamo per piacere. Non c’è piacere nel viaggiare e io lo vedo come un’occasione per affrontare una prova spirituale... Il piacere ci allontana da noi stessi, come la distrazione nel senso pascaliano ci allontana da Dio. Il viaggio che è come una scienza più grande e grave, ci riporta a noi stessi."

Le parole di Camus sono la cosa più vicina a una risposta che riesco a trovare.
E un secondo dopo l'auto si ferma davanti a un filo di ferro teso a chiudere la strada. Una tenda da campeggio rossa sul fianco della montagna "Nobile e gli eroi della!" penso automaticamente, grata di avere allucinazioni familiari, ma è solo l'ultimo controllo passaporti. Non è nemmeno un soldato cinese, stavolta, è tibetano: nessun altro essere umano potrebbe resistere qui. Tira via il filo e mi fa cenno di scendere, scendo.
Mi indica qualcosa. Eccolo.

giovedì 18 novembre 2010

Verso il nulla.



Ho perso il conto: quattro cinque ore, me ne aspettano altrettante. Il paesaggio è nudo e scarno, simile a un Ür -Abruzzo, una serie di altopiani circondati da montagne, ma alla decima potenza. Ci siamo fermati spesso, devi bere continuamente acqua qui, respirare non basta a incamerare ossigeno. Le latrine sono indescrivibili ma se non ci sono è anche peggio, guida e driver che guardano da un'altra parte e fumano una sigaretta, io sotto un ponte o dove capita, morta di vergogna, se solo fossi un uomo, maledizione.


Il passo Khar-o-la, 5500 mt., un paio di tristi yak bardati a festa per farsi fotografare con i turisti, due banchetti di poveri souvenir allestiti sullo spiazzo dove i pulmini fanno una sosta. File e file di bandierine colorate pregano per i peccati del mondo, il vento le sbatacchia senza sosta. Sakyamuni, prega per noi, Maitreya, prega per noi, Amitabha, prega per noi. A Lhasa e Shigatse era tutto così rituale e meccanico, con una sua enorme forza icastica, ma quelle folle ignoranti che roteavano i mulinelli da preghiera con lo stesso fervore isterico di una donnetta a S.Giovanni Rotondo non mi davano grandi emozioni. Qui, questi poveri filamenti straccioni abbandonati nel nulla eppure sventolanti mi commuovono e mi sembrano esattamente quello che la fede dovrebbe essere.


La povertà spaventosa dei pochi villaggi incontrati, e chissà cosa sarebbero senza le strade cinesi, senza le scuole cinesi, senza i piloni cinesi dell'elettricità che arrivano ovunque. Quattro tacche di telefonino anche qui, questa è Cina, punto, e te lo ricordano in tutti i modi di cui dispongono. Caserme enormi nel nulla, fecero così anche i Romani per dimostrare la forza dell'Impero. Assurdi cartelli "please, respect the environment", da che pulpito, e "live together in harmony" sbucano improvvisamente sul ciglio di strade vuote e silenziose. Ecco, il silenzio di questo luogo è qualcosa di irreale, o meglio, lo sarebbe se i miei due compari non ascoltassero in loop un dvd di cantante pop locale in stile ninod'angelo goes to Bollywood, con tanto di balletti karaoke a video. La guida mi dice strizzando l'occhio che sarebbe proibito ascoltarlo in quanto i testi sono molto diretti e crudi (???). E' la prima volta in vita mia che mi trovo a favore della censura. Rolling Stones mey you? Ecchettelodicoaffà.

lunedì 15 novembre 2010

Sette giorni in Tibet 4


Vista l'affascinante Gyantse, minuscola città-monastero-fortificata, una volta ricca e potente, poi distrutta per la maggior parte dai cinesi. Ora ha la bellezza malinconica di quelle piccole fortezze solitarie disseminate nello sfondo di tanti quadri italiani del Rinascimento.
Gyantse fu anche teatro della più ridicola battaglia inglese, con la quale i britannici, al comando del maggiore Francis Younghusband, invasero formalmente il Tibet nei primi anni del Novecento. Ridicola perché i tibetani non avevano la più pallida idea di chi fossero quei tremila tizi con strani carri in ferro e fucili del tutto inutili, quando loro vantavano degli amuleti benedetti dal Dalai Lama che avrebbero dovuto proteggerli dalle pallottole. Non funzionarono, e in quattro minuti netti gli inglesi massacrarono settecento avversari.

Vista l'orribile moderna Shigatse, con l'imponente e ricchissimo monastero Tashilumpo sede nominale del Panchen Lama, l'amico-rivale-successore del Dalai, il dioscuro allevato dai cinesi che rinnegò la Cina tre giorni prima di morire improvvisamente e misteriosamente. Il piccolo nuovo Panchen seienne in cui si reincarnò fu rapito insieme ai genitori e portato in località segreta, il più giovane prigioniero politico del mondo, mai più riapparso. Un nuovo sorridente fanciullo, questa volta 'scoperto' dai cinesi con reincarnazione approvata doc, è cresciuto a Pechino, aspettando di diventare il reggente del Tibet non appena il Dalai lascerà il suo ennesimo corpo terrestre. Dio sa cosa succederà allora.
Tashilumpo è esattamente come sarebbe la ricca abbazia de "Il nome della rosa" se Eco l'avesse ambientata in Tibet. E in effetti tutto il viaggio sembra un tuffo in una sorta di medioevo continuamente violentato dall'innesto cinese, una società arcaica che ha subito un crash frontale con la modernità più sfrenata. Le cinture di sicurezza e gli air bag non hanno funzionato, esattamente come gli amuleti del 1905.

Cenato con altri due delle ong, così altezzosi verso chi non ha fatto il Darfur e il Mozambico, così pieni di superiorità morale verso il resto del mondo che ho fatto fatica a non alzarmi e andarmene. Tutta la sera in stile "Sai, quando ti abitui a fare il chirurgo con le rane che saltano qua e là in sala operatoria, cosa vuoi..." "Ma qui è lusso, dovevi vedere i campi profughi in Rwanda...". Io il massimo dell'unità di crisi che posso vantare è un backstage con il truccatore isterico perché la modella aveva un brufolo, quindi mi taccio che è meglio. Il risultato è che stramangio cupamente bistecche di yak, mi fumo una sigaretta e scolo persino una birra Lhasa, sciacquatura di piatti, ma il giorno dopo sembro reduce da una gara a "chupitos de vodka" con un camionista spagnolo.
Che hangover! Ma perché devo sempre fare la splendida, anche a 3840 mt? Scendo barcollando nella sala per la colazione, dove scopro agghiacciata che non esiste l'ombra di colazione, almeno come la intendiamo noi.
"Ka-fei you ma? Mei you
Niu-nai you ma? Mei you
Sei chà you ma? Mei you
Egg? Bread? Jam? Bacon? Pancakes? Cookies? Mei you" (che, ormai l'avrete capito, vuol dire ciccia, niet, manco morti, impìccati, siamsenza, nuncisà)
Dal tavolone arrivano orribili odorini: ravioli fritti, verdure saltate, zampe di pollo bollite, congee di riso con sottaceti.
Dopo mie suppliche arriva una fetta di pane in cassetta molliccio e che sa di alcool e, non si vedeva l'ora, il piatto nazionale tibetano, la tsampa. Trattasi di pappa d'orzo mischiata con acqua calda e... indovinate? Burro di yak. Dopo due bocconi corro a vomitare l'anima.
Nella hall la guida mi squadra preoccupato. Il mio abituale pallore cinereo è sostituito da un verdognolo ancora meno invitante. Sicura che voglio partire? Sicura. Voglio vedere l'Everest.

lunedì 1 novembre 2010

Sette giorni in Tibet 3



Immortalare Lhasa risulta piuttosto complesso in quanto è vietatissimo fotografare i militari ma appena punti la macchina da qualche parte ti ritrovi almeno un paio di AK47 nell'inquadratura, con uno strano effetto comma 22.

Come se non bastasse la città è attraversata da un flusso costante di pellegrini che compiono la Kora, il pellegrinaggio intorno ai luoghi sacri da svolgersi in senso orario. Il problema è che le folle sono tipo Lourdes, dunque fermarsi a un angolo di strada per scattare un'immagine è operazione del tutto vana (lo dico solo perché così quando posterò un paio di fotine non starete tutti lì a dirmi che fanno schifo). Lo shock principale, a parte i kalashnikov, è però di tipo olfattivo: nel suo splendido "Segreto Tibet", il buon Fosco Maraini aveva messo in guardia dal foetor tibeticus, ma devo dire che la realtà supera ogni immaginazione.


Il fatto è che l'intera vita tibetana sembra reggersi sullo yak e soprattutto sul burro dello stesso, rigorosamente rancido: per strada ne offrono enormi tocchi da dieci chili; i templi ne vendono centinaia di sacchetti perché le lampade votive vanno a burro; gli stessi ex-voto sono fatti di burro, modellato tipo das e colorato poi con polverine sgargianti; le donne se lo spalmano in faccia per proteggersi dai rigori del clima, e lo pettinano fra i lunghissimi capelli per nutrirli e tenerli a posto. Insomma, non si resiste.

Peccato poi, perché le ragazze secondo me sono bellissime... trecce lunghe e nere, bei colli slanciati, visi con zigomi duri e sorrisi dolci, un'aria fiera e un incedere molto lontano dallo sgraziatissimo tacchettìo delle cinesi. Quasi tutte vestono con l'abito tipico tibetano, e i capelli sono variamente acconciati a seconda delle zone di provenienza.

Tutti, donne e uomini, indossano gioielli di corallo, turchese e ambra, a volte intessuti nei capelli. Devo dire che l'effetto è splendido, mi ricordano un po' colori e tratti andini, molto più belli a vedersi, però. Cena con una persona di una ong che mi racconta un po' di come sia dura vivere lì durante l'inverno, quando ti svegli con -10° nella stanza (non c'è il riscaldamento), tutti i ristoranti e bar a parte quello in cui siamo chiudono e in generale la città va in letargo. Non esistono supermarket che vendano cibo straniero, a parte che per l'altitudine la pasta ci mette ore per cuocere. Non sarebbe il peggio, però, se non fosse che il corpo a quelle altezze impazzisce: io pensavo bastassero due-tre giorni per acclimatarsi, invece dopo qualche mese ti ritrovi con iperproduzione di globuli rossi, insonnia cronica, tachicardia, pressione a mille e in generale stai a pezzi. E io che mi sentivo eroica a vivere così per una settimana!

sabato 23 ottobre 2010

Sette giorni in Tibet 2


Lhasa vecchia è una cittadina pittoresca e a suo modo assai fascinosa. L'albergo da cui in precedenza sono scappate l'ambasciatrice e tutte le altre signore che hanno ottenuto asilo politico allo Sheraton, a me sembra invece pulito e carinissimo.

Pomposamente definito "boutique hotel" dalla lonely planet, ha una deliziosa terrazza che dà sui tetti di Lhasa, il problema è che per salire il modesto numero di scalini praticamente finisci in ER con un defibrillatore: mi rendo conto che mi viene il fiatone non appena faccio un minimo sforzo fisico e no, non sono completamente atrofizzata, come state odiosamente pensando.
L'unica è sdraiarsi nella sprecatissima 'suite tantrica' che mi hanno stupidamente assegnato e riposare bevendo quantità industriali di acqua. L'acqua porta ossigeno, e io ho bisogno di mol to os si ge no ga sp !
Due ore dopo mi sono così rimessa da riuscire a parlare al cellulare senza farmi venire la tachicardìa, son risultati. Decido di festeggiare facendo un giretto in centro e cercando un posto per cenare il che, come vedete dalle foto sotto, può risultare non semplice.


Sette giorni in Tibet.

Io non lo so bene perché l'ho fatto. Probabilmente una parte di me voleva uccidere l'altra, ammesso che Bree si faccia far fuori così facilmente. O magari il gusto di scandalizzare tutto il circolo delle signore, o magari che da troppo tempo non mi sfidavo a fare qualcosa di cui avevo un po' paura. Insomma, ho preso e me ne sono andata in Tibet. Dasolaaaaa? Non allo Sheratooon? Fino al campo base dell'Evereeest? Yes, ladies!

Invece dei bradpitteschi sette anni dispongo solo di sette giorni, più due di viaggio, me li farò bastare. Niente supertreno pressurizzato, quindi, ma un banale Beijing-Lhasa con scalo a Chongqing, amena cittadina sichuanese da trentasette dicansi trentasette milioni di abitanti. E' un viaggio per uomini veri questo, quindi riesco nella storica impresa di far stare tutto nel bagaglio a mano, porto barrette energetiche e scatole di tonno e soprattutto, lascio a casa le scarpe da tango, sigh!
La prima avventura del viaggio consiste nel lunch offerto da South China Airlines: un pasto gustoso e bilanciato a base di:
-yoghurt di yak (io già odio quello normale)
-rigaglie di pollo fredde
-verdure in salamoia piccanti del Sichuan
-poltiglia di carote e piselli lessi
-spugnetta da cucina (che guardando meglio dev'essere il dolce)
Cerco di pensare positivo, in fondo tutti mi han detto che in Tibet si mangia da schifo e se questo è il primo assaggio direi che hanno ragione. In fondo c'è gente che paga stupidamente migliaia di euro per andare a digiunare da Messegué quando potrebbe venire qui e avere lo stesso risultato vedendosi anche un bel posto. Cullandomi nell'immagine di me medesima -5 kg che avrò al ritorno mi addormento affamata e beata, condizione ideale per avere visioni mistiche, che in Tibet hanno il loro perché.

-continua-

martedì 14 settembre 2010

Incontri ad alta quota.

Mi stavo concedendo un bel bagnetto immersa nella schiuma fino al collo quando improvvisamente ho incrociato lo sguardo attonito di un uomo.
Il fatto è che abito al ventinovesimo piano, quindi la cosa non dovrebbe teoricamente succedere. Ma oggi era anche il giorno del bagnetto alle finestre, come puntualmente avvisato in cinese e in inglese nella bacheca di fianco all'ascensore, dunque vari omini appesi alle loro liane erano lì pulendo vetri coscienziosamente. Ho abbassato di colpo le stecche della veneziana, poi mi sono chiesta quanto mi stia abituando a vivere lontano da terra in tutti i sensi, questa distanza siderale (linguistica, culturale, economica e persino appunto, per così dire, metrica) che mi stacca e mi separa dal resto del mondo reale.

lunedì 6 settembre 2010

Chiamatemi Ismaele.

Domenica 5 ottobre, in onore del Presidente del Cne...
Lunedì 6, per l'inaugurazione della mostra sul Futurism...
Martedì 7, in occasione della visita di Prod...
Mercoledì 8 cena per festeggiare...

I cartoncini, le mail, i biglietti mi includono graziosamente come "...e signora". Da un pezzo ormai non ho più nome né cognome. Comincio a pensare di non averlo mai avuto. Comunque qui non conterebbe, non serve affatto. Le rare volte in cui mi presento da sola con il mio nome e il mio cognome (ma sono proprio sicura di non essermelo inventato?), vengo guardata con lieve sorpresa, con un'ombra di disapprovazione: perché rendere la vita più complicata a chi già deve memorizzare tante cariche, facce e abbinamenti? Più spesso vengo chiamata con il mio nuovo marchio registrato "e_signora"®.
E_ signora® esclama che è lietissima, encantada, nice to meet you. E_signora® stringe la mano alle signore e porge la mano ai signori, che accennano deliziosi baciamani vecchio stile.
Quando proprio è di cattivo umore, e l'eco del suo vecchio inutilissimo nome le pulsa molesto come il ricordo di un malditesta, e_signora® mormora 'fuck you' affogandolo nel suo miglior sorriso. Non se ne è mai accorto nessuno.

Scusate il ritardo.

Davvero, lo so che avevo detto metà agosto. E' che sono ancora sotto shock: sono tornata con un overluggage leggendario, commutato dopo tammurriata nera al banco Lufthansa praticamente nel costo di un altro biglietto aereo.
Per giunta durante il viaggio si è rotta la preziosissima teglia di Montetiffi che sarebbe servita per fare le piadine. Quest'estate Bree si era impuntata: dico, a Pechino vorremo mica mangiare il salume coi tacos e le tortillas? Alle mie deboli rimostranze sul fatto che mai avevo fatto piadine e non sono nemmeno romagnola, Bree ha ricordato che cucino ottime paste con le sarde senza essere siciliana, se è per questo, e che con la sola, vera originale teglia in terracotta comprata apposta durante fiera gastronomica nel forlivese, sicuramente sarei stata in grado di produrre qualcosa di edibile (il tentativo di dirottarla su teglia in metallo non DOP reperibile vicino casa è ovviamente fallito).
Per portare la pazzia fino all'estremo, as usual, mi è toccato imbarcare pure un sacchetto di crusca, per pretrattare la teglia prima dell'uso (come si dice 'crusca' in cinese? Appunto).
Quando ha visto i tre pezzi di terracotta, Bree ha cominciato a urlare che avrei dovuto metterla nel bagaglio a mano (e il computer? E la macchina fotografica? Dettagli irrilevanti)
Insomma tiene il broncio, e i cocci, da un mese

giovedì 1 luglio 2010

Saluti dal mare (e poi anche dai monti)

Questo blog va in vacanza, perché è pallido e deve prendere un po' di sole. Tornerà il 16 agosto, quando in vacanza sarete voi, almeno spero! Zài Jiàn...

venerdì 11 giugno 2010

Zen & the ladies.

Stamattina per la prima volta riesco ad alzarmi e arrivare al parco a un'ora che definirei mattutina (per i cinesi sarebbe aperitivo pre-pranzo ma insomma, qui siamo in Italia e il fuso orario è diverso).
Mi sento molto mistica e concentrata, oggi, certa che se riuscirò a eseguire correttamente e senza fermarmi l'intera sequenza di tai qi la giornata avrà una svolta positiva e l'intera settimana di stravizi alimentar-mondani svanirà nella ritrovata disciplina zen.
Devo solo svuotare la mente e farmi movimento, respirare, visualizzare le mosse e muovermi armoniosamente nella natura. Devo solo muovermi, respirare, fare gesti rotondi ampi e lenti...
-Scusi, si sente male?
La vecchia signora mi guarda preoccupata e mi ha pure messo la mano sul braccio. Il mio sogno zen è andato a farsi un camparisoda.
-Non sto male, sto praticando tai qi - correggo fulminandola.
-Aaaaah... - fa lei, ma è chiaro che non ha capito. - Mi sembrava che stesse male
-Sto benissimo, sono solo molto concentrata per ricordare le mosse
-Aaah, come il pilates! -al passo coi tempi, la nonna.
La ignoro sdegnosamente e ricomincio a respirare, iniziando un gesto ampio e rotondo, che finisce in modo totalmente goffo su un cane arrivato di corsa ad annusarmi proprio in mezzo alle gambe.
-Scusi, sa - arriva la padrona di corsa, cercando di trascinare via la belva pelosa.
-Sta facendo il tai qi - spiega la vecchietta che si è autonominata interprete e magari pure coach, vai a sapere.
-Che bello, mia cugina fa yoga, dice che le fa tanto bene
Rimpiangendo la mancanza di una katana per farle a fette tutte e due, mi rassegno a sloggiare prima di finire a conteggio calorico e prova costume.
Insomma, ho passato anni in questa città senza che nessuno mi rivolgesse la parola e ora tutti a preoccuparsi della mia salute? Ma che gli è successo ai milanesi? Da socialisti a socializzanti? Mah.

lunedì 7 giugno 2010

Home sweet home.

Il bancomat/carta di credito si è smagnetizzato
La caldaia non funziona. Vano tentativo di farla ripartire e doccia gelata spero almeno altamente tonificante.
La zona sta diventando ztl, quindi la strada è sventrata dalle ruspe e la macchina è rimasta chiusa dentro, suppongo finché la batteria non sia completamente andata.
Per via dei lavori in strada le librerie sono coperte da spettrali teli di plastica e l'intera casa assomiglia alla tomba di Tutankamon, appena più polverosa.
La bici ha il lucchetto arrugginito, dunque non s'apre, oltre ad avere, ovvio, le gomme a terra.
Alla tv sono saltati tutti i canali (ah, già, c'era il digitale terrestre) e si vede solo telenorba.

Mi sa che torno in aeroporto a chiedere asilo politico.

giovedì 3 giugno 2010

Fuga.

Potrei dirvi che eventi improrogabili mi chiamavano in patria, che un matrimonio mi attendeva, che amici virtuali aspettavano il mio arrivo per diventare reali, ma è giusto chiamare le cose con il loro nome: fuga. Sono scappata, letteralmente e vilmente. Ho mollato lì tutti, ho stivato un po' di capetti in una valigia (beh, d'accordo, molti capetti), e sono saltata sul primo aereo in partenza per l'Italia. Non ce la facevo più. Suppongo che la visione di un paio di tiggì renderà nuovamente la Cina un paese desiderabile, ma ora ho una vera crisi da rigetto: sono stanca e mi manca l'aria.

lunedì 17 maggio 2010

Le solite scuse!

L'acqua del rubinetto qui non è potabile e per bere si usa un boccione come quelli da ufficio. Da quest'inverno ho trovato un'ottima acqua italiana, e ieri ho chiamato per la solita fornitura settimanale. "Non abbiamo più acqua, sorry", risponde la signorina farfugliando qualcosa sul Pilates. "Mi sta dicendo che ha esaurito l'acqua perché se l'è bevuta tutta per fare Pilates?" comincio a ringhiare. Dopo lunga e paziente traduzione viene fuori che l'acqua è finita perché il cargo con la nuova spedizione è stato assaltato e rapito dai pirati somali, che trattengono la nave in attesa di riscatto. Tutto vero, giuro.
Praticamente la migliore scusa mai sentita dai tempi di John Belushi: "Locusts!...Pirates!..."

domenica 9 maggio 2010

Cattiva dentro.

Attenzione, questo post contiene espressioni politicamente scorrette.

La primavera segna l'inizio della terribile stagione delle charities. Ovvero quell'enorme macchina da guerra che convoglia e mobilita le energie frustrate di migliaia di spouses per una Buona Causa a scelta. Con violenza monsonica una pioggia di eventi, bazaar, luncheon parties, riffe, racing games, sfilate, concerti, tornei, cashmere sales, triccheballacche e putipù si abbatte dunque sull'agenda della vostra povera casalinga, che sta ormai meditando seriamente di chiedere asilo a qualche monastero tibetano, casomai arrivasse il visto. Ogni telefonata, ogni incontro può essere fatale: "Darling, have you received my mail?"
...espressione alzheimer
"It's about the Bazaar at the German School on Saturday, you know, the poor little orphans from Sichuan.."
espressione panico, hai già preso tre impegni per quel Saturday "Ehr, Suzan, may be it will be difficult for me to attend cause I already have.."
A quel punto gli occhi di Suzan si sono già ristretti come la lana lavata a 60° e con espressione altrettanto infeltrita ti viene fatto notare che certo, tutte vorrebbero semplicemente passare il sabato just relaxing e d'altronde è, absolutely, su base volontaria e per carità, non sarà certo lei a giudicare anche se certo, pensando che fra poco ci sarà l'evento italiano... maledetta bastarda ricattatrice, penso mentre tiro fuori l'agenda e aggiungo l'ennesimo fucking event alla lista. Cioè no, scusate è per una Buona Causa e anzi, se voleste partecipare mi ha pure rifilato i biglietti da vendere, sono solo 30 rmb.

Risultati.

Sono alla diciottesima lezione di tai qi. Sul fronte fisico continuo inspiegabilmente a non trasformarmi in Uma Thurman. Però volevo segnalare che ho eseguito la prima sequenza completa di 20 mosse di fronte alle belve, che sono rimaste di stucco: "mamma, sembri vera". E son soddisfazioni, via.

venerdì 23 aprile 2010

China Girl Syndrome

Attenzione: questo post contiene espressioni politicamente scorrette.

Altro che aviaria, altro che A-flu, c'è un altro spettro che si aggira per la Cina...
Gli uomini che preferiscono le bionde, i cultori del lato b e quelli che sotto la terza non è vero amore sono le uniche categorie maschili relativamente esenti da rischio. Tutti gli altri sono vittime designate della China Girl Syndrome, che colpisce i maschi della comunità expat in percentuali devastanti. Praticamente ogni giorno incrocio coppie e coppiette miste esclusivamente composte da un lui occidentale e da una lei orientale che gli tacchetta a fianco sgraziata (ciabattano e si muovono malissimo tutte). Va detto che qui molto spesso le cinesi sono notevoli: slanciate, esili come giunchi, spesso gran belle gambe (a differenza delle colleghe jappo), visi delicati e dolcissimi, serici e lunghissimi capelli neri. Le CG non manifestano alcun segno di cellulite, non sudano nemmeno a 40°, dimostrano in media dieci anni di meno dell'età reale. Girano in shorts e stivali sadomaso dalla mattina alle nove. Opportuni reggiseni e mutande imbottite riempiono otticamente zone strategiche per lo sguardo maschile. Ovvio che il confronto con qualunque donna occidentale overtwentyfive diventa quanto meno crudele. E non pensiate di cavarvela come la sottoscritta, vestendovi con eleganza e camminando con grazia ostentata. Si sa che all'eterosessuale medio della grazia e dell'eleganza femminile non gliene può fregar di meno, e in generale l'unico pensiero riguardo i vestiti di una donna è come toglierglieli, non negate.
Personalmente dopo il primo periodo di ammirazione sorpresa, di entusiastica sorellanza, di complicità femminile, di cauta competitività, di seccato sarcasmo, sono ormai nella fase dell'esasperazione totale. Insomma incrociare lo sguardo ebete di una cinquantina di maschi al giorno che ti ignorano come fossi un fantasma solo perché sono occidentale alla lunga mina l'autostima, che diamine. Quasi quasi vado a farmi bionda e a imbottire il reggiseno come un siluro. Anzi no, mollo il colpo, compro delle crocks e vado in giro in t-shirt informi ingrassando come una farmer australiana, che liberazione.

mercoledì 7 aprile 2010

Il salmone.

Finalmente! Dopo mesi in cui era chiuso per restauri (lifting?), posso finalmente visitare il mausoleo dove giace, imbalsamato, il Grande Timoniere. Non che morissi dalla voglia, sono più della scuola JeromeKJerome sul rifiuto integrale per reliquie, teschi e altre amenità solitamente propinate da cripte, cappelle & co. Ma in un paese come questo, dove il culto laico per Mao continua a sopravvivere, ero troppo curiosa di vedere con i miei occhi.
Dunque eccomi in fila, nella gigantesca piazza Tian' an men. La coda è sterminata, migliaia di persone che arrivano da tutta la Cina, si notano le differenze etniche, alcuni hanno il cappellino bianco dei musulmani, molti sono vestiti poveramente, si vede che son contadini. Le misure di sicurezza sono imponenti, la borsa va lasciata in un altro edificio, previa altra coda, poi detector come in aeroporto e altoparlanti che danno istruzioni in cinese su cosa fare e non fare (togliere gli occhiali da sole, via il cappello, ecc). Non pensavo che tanta gente fosse ancora così desiderosa di vederlo. Prima di entrare si può acquistare un dépliant che illustra cosa c'è all'interno, o dei fiori bianchi avvolti nel cellophane, che però andranno deposti nell'atrio.
Si entra silenziosi in due grossi serpentoni di folla, che dopo la prima sala confluiscono in una stanzetta ai lati del corpo: si ha appena il tempo di vedere il salmone, in divisa e semicoperto dalla bandiera. Il viso è inquietante perché hanno cercato di retroilluminarlo e l'effetto è quello di una lampadina arancione posta dentro la testa.
'Circolare, circolare' credo dicano i guardiani, che in men che non si dica ci spingono tutti fuori. Mi sembra di aver fatto la comparsa in un film patriottico, che impressione. Anche un po' schifo, via.


mercoledì 24 marzo 2010

Tempesta di sabbia.

Sabato mattina mi sono svegliata in un episodio di Spazio 1999. Il cielo, e tutto il resto, era completamente arancione, come se avessero messo un filtro colorato davanti alla finestra. Ora, vivere in Cina vuol dire essere immersi nella surrealtà da mane a sera, ma per la prima volta questa sensazione era fisicamente certificata, come dire palpabile ed evidente allo sguardo.
Era come se il mondo mi stesse dicendo "bella (il mondo è gentile col mio superIo ultimamente malconcio), hai proprio ragione: non sei tu che sei strana, è qui che è un delirio". Poi il vento ha progressivamente smesso di soffiare sabbia e il pomeriggio il cielo era pulito. Così ho ricominciato la mia assurda vita normale.

lunedì 15 marzo 2010

Nonsolofitness.

Dal 5 al 19 Marzo a Pechino c'è il Bookworm Literary Festival, l'evento culturale per eccellenza della stagione. Pur di avere una scusa valida e saltare qualche lezione col sergente Hartmann aka Lao-she Tsu, compro un po' di biglietti per seguire i vari incontri con scrittori affermati e non. Il programma è ricchissimo, prevede presentazioni, dibattiti, seminari di scrittura, literary lunch, gala dinner and so on. E' tutto molto interessante, o meglio lo sarebbe se la vostra casalinga avesse un inglese fluent come dichiarava in perfetta buona fede nei curricula. La triste realtà è che:
-gli australiani, nze capiscono
-i neozelandesi secondo me non li capiscono nemmeno gli australiani
-gli indiani hanno un accento assurdo, e nze capiscono
-gli scozzesi, boh, parlassero come bevono andrebbe tanto meglio
-gli inglesi parlano un inglese troppo inglese, troppo veloce e troppo a scatti, e nze capiscono
In pratica comprendo solo gli irlandesi, quasi tutti gli americani e David Grossman.
E non ho nemmeno la scusa di discorsi astrusi e culturalmente elevati, gli scrittori qui si fanno un dovere di non fare gli intellettualoidi e parlare con humour e understatement, son proprio io che sono bestia.

giovedì 11 marzo 2010

kung fu Mav

Sì, lo so che dovevo dirlo prima, ma mi vergognavo.
In breve, in preda alla nota sindrome d'inizio anno, quella che fa schizzare in alto i bilanci delle palestre e dei fruttivendoli, e segna temporanee flessioni del consumo di sigarette, la sottoscritta si è iscritta a un corso di tai chi o qi gong che dir si voglia.

(Pausa scenica per permettere a chiunque la conosca dal vivo di sghignazzare con cachinni e lazzi assortiti: Mav odia qualunque forma di fitness e rémise en forme, a meno che non preveda lo sbattimento fisico di qualcun altro, un massaggiatore, ad esempio)

Seriamente convinta di diventare istantaneamente alta, bionda e con look glamourello come la protagonista di Kill Bill, la vostra incauta eroina si presenta all'Istituto di cultura italiano alla prima lezione insieme a un altro gruppo di disgraziate. Il maestro, lao-she Tsun, è un omino minuto a cui non daresti un fico secco, come nella migliore tradizione dei film di kung fu. In realtà pare sia stata una delle ultime guardie speciali al servizio del grande Timoniere, quindi mi aspetto che improvvisamente salti in aria urlando "lame rotanti!" affettando tutti i nostri eventuali cuscinetti di cellulite (e sottolineo eventuali).

In breve è chiaro che più che alla sposa tarantiniana somiglio a kung fu panda. E sono pure una delle meglio del gruppo: annaspiamo tutte in pose fra lo sgraziato e il paraplegico, mentre lao-she Tsun continua a correggerci con aria impassibile senza nemmeno contorcersi dalle risate.
Ora, non credete a tutti quei quadretti di zen di vecchietti che fanno armoniose mosse di tai chi nei parchi all'alba: essa disciplina è un'arte marziale stilizzata sì, ma tutt'ora tostissima e fa un male bestiale a tutta una serie di muscoletti bastardi che non avevano mai appalesato prima la loro esistenza.

La seconda lezione ci vede ridotte della metà, ma io vado avanti, perbacco, avete mai visto kung fu panda mollare il colpo? Sono sicura che dopo la decima lezione diventerò Uma, basta tenere duro, sìssì.

domenica 14 febbraio 2010

Tigre o Valentino?

Buon Capodanno, buon anno della Tigre! O buon San Valentino? Entrambi cadono il 14 febbraio, quest'anno. E per i giovani cinesi è un disastro: tornare a casa da mammà (l'anno scorso si spostarono 188 milioni di persone, solo in treno), o festeggiare con l'anima gemella? Già, perché il Capodanno in Cina è la festa più importante in assoluto, una specie di ferragosto+natale nostrano, ed è l'unica occasione per poter tornare a rivedere la famiglia nella propria regione d'origine. Ma le feste "americane" come Halloween e San Valentino hanno preso molto piede, e con la penuria di ragazze che si ritrovano, chi ha voglia di litigare e magari di perdere la fanciulla amata, che quel giorno si aspetta minimominimo una cena "speciale"? A volte i conflitti di civiltà si annidano nei posti e nelle date più impensate.

domenica 31 gennaio 2010

La libertà costa.

Anche la censura crea un mercato: gli utenti internet in Cina sono ormai 384 milioni, in crescita. A parte gli attivisti dei diritti umani e gli expats, anche i "normali" navigatori cinesi hanno tutti voglia di accedere a Facebook, YouTube, Twitter e altri social networks. Grazie alla censura su web, diverse compagnie che vendono proxy o VPN come AnchorFree, Open Terrace o Witopia hanno raddoppiato in un anno le vendite (il pacchetto Witopia costa 60 dollari l'anno).
La tendenza è mondiale: fra i 60 paesi che restringono l'accesso a internet (nel 2008 erano solo 37) troviamo, oltre alla Cina, l'Iran, gli Emirati Arabi Uniti, la Georgia e persino l'Australia. La recente controversia con Google, e la potenziale perdita di gmail in Cina, non farà che fare aumentare la domanda per sistemi "sicuri" di accesso.
(fonte: International Herald Tribune)

mercoledì 27 gennaio 2010

Bài se de zhou mo (white weekend).

In questa vita surreale in cui galleggio non poteva mancare l'abominevole Weekend sulle nevi. Ovvero, gita di gruppo (con pullman e panini) per andare a sciare. Naturalmente lo sci in Cina non esiste, ma ciò che non c'è si crea o si copia, dov'è il problema?
Nell'Hebei, regione che circonda Pechino a nord e arriva all'Inner Mongolia, è stato quindi creato due anni fa l'avveniristico comprensorio "Dolomiti". Il nome è italiano perché progettato chiavi in mano da due aziende altoatesine leader nel settore, anche se in realtà la sua traslitterazione in cinese è: Duò lé mài di, cioè "posto bello e molto allegro".
Dopo un allucinante viaggio che doveva essere di tre ore e mezza ed è diventato di sei (ebbene sì, scappare via da Pechino il venerdì sera è come farlo a Milano moltiplicato per venti), arrivo all'una di notte nel lussuoso hotel "Snow island" nel bel mezzo del nulla. Lussuoso perché in camera ci sono due tv (!), e c'è l'acqua quasi tiepida e persino una stufetta elettrica, che vi credete. La promessa connessione wireless è ovviamente una bufala, così come la speranza di un bagno caldo.
Il mattino dopo veniamo tirati giù all'alba per scoprire con raccapriccio che la colazione a buffet non contempla alcunché di mangiabile per palati occidentali. Chi scrive si è sempre vantata di mangiare cose immonde a colazione, fossero aringhe e cipolle o egg&bacon anglosassoni, ma qui la scelta è fra una specie di insalata di nervetti e altri pezzi di maiale, cipollotti, aglio e coriandolo, "congee" con pezzettini di pesce secco e altre golosità del genere.
Caffè? Mèi you. Latte? Mèi you. Pane? Mèi you. Vabbé, in fondo siam qui per lo sport, dunque si arriva sulle piste a pancia vuota. E le piste sono un sogno: non tanto lunghe, è vero, con neve sparata e nemmeno particolarmente difficili. Ma praticamente vuote. Nessuna coda alle seggiovie, nessuno che ti taglia la strada, nessuno snowboarder killer sul tuo cammino. Scendo velocissima in un bianco mare silenzioso, il vento che mi taglia la faccia, un piccolo bosco di betulle ai lati, il suono delle lamine sulla neve. Non penso a niente. Sono felice.

mercoledì 20 gennaio 2010

Andiam, andiam, andiamo a traslocar...

Attenzione: questo post contiene espressioni politicamente scorrette.

C'era una volta un trasloco... -Un trasloco! - direte voi bimbi spaventati- una delle tre cause di stress peggiori al mondo dopo un lutto e insieme ad un divorzio!
Peggio ancora, carini, (voce cavernosa) qui si parla di trasloco cinese, of course!

L'idea è che vi arrivi in casa il maggior numero possibile di omini (nel mio caso 7), che tutti in tondo comincino a girare su se stessi e terminino il giro guardandovi inerti. Voi guardate loro, poi il pacco di cartoni a terra, poi ancora loro, chiedendovi se dovete pronunciare qualche formula magica tipo ready, steady, go! Passano così lunghi minuti silenziosi che nemmeno in un western di Sergio Leone. Naturalmente nessuno dei sette nani parla inglese, chevvelodicoaffà. Alla fine telefonate all'agente immobiliare che vi ha mandato il plotone, e magicamente il gruppo si mette in moto.

Ora uno penserà "con sette traslocatori è una favola, finirà tutto in un'oretta". No.
Il concetto è molto simile alle peggiori barzellette su carabinieri, avvocati ecc, quelle tipo: "Quanti gay ci vogliono per svitare una lampadina? Nove, uno per farlo e gli altri per gridare favoloso!"
Ecco, qui è uguale. Quanti traslocatori servono per aprire un cartone e riempirlo? Tutti: uno apre il cartone, un altro gli porge le forbici e il resto della truppa tutto intorno a guardare l'operazione. Purtroppo il mio cinese non è sufficiente per articolare che:

a- Non è un trapianto a cuore aperto, e persino il compianto dott. Barnard si sarebbe accontentato di meno gente intorno.
b- Ci sono altre tre stanze più cucina da svuotare, imballare e inscatolare.
c- Con questo ritmo si finirà per l'Anno del Dragone.

Quindi cerco di staccare almeno brontolo e pisolo per trascinarli di là, ma ogni tentativo è vano: appena lontani dai fratellini, i traslocatori si bloccano come se gli avessero tolto le pile dal torace. Proprio non ce la fanno.

Piano B: ovvero Biancaneve a imballare in una stanza e i sette nani nell'altra. Ma nemmeno questo è possibile, "imballaggio" in cinese dev'essere come "restauro": termine sconosciuto. Si piglia la roba e la si sbatte nello scatolone, no?
NO. Maledizione, dovevo capirlo dal fatto che mi ero preoccupata io di trovare la carta a bolli...
Insomma, dopo sole dieci ore il trasloco è compiuto... da Tower 3 a Tower 2, che vi credete. Pensate a dover andare in un altro castello, attraversando la nera foresta di auto di Pechino... brrr, altro che fratelli Grimm!

martedì 12 gennaio 2010

The longer, the better.

Cosa cercano i cinesi in un'auto di lusso? Design di Pininfarina? Interni in radica? Motore potente? Sedili in pelle umana? No, semplicemente che sia più luuuunga. La guerra dei marchi europei di fascia alta in Cina si combatte così, cm su cm.
In un mercato di enorme potenzialità, dove l'anno scorso, alla faccia della crisi registrata in tutto il settore, la domanda incrementò del 20%, vince chi tiene conto delle esigenze locali.
Cominciò Audi, nel 2000, con una A6L opportunamente allungata di 10 cm rispetto al modello standard. Le vendite furono incredibili, dalle 25.368 unità del 2005 al più che raddoppio di 57.350 nel 2006. Nel 2008, la A6L fu la prima auto di lusso a superare la barriera delle 200.000 vendite, e il marchio detiene tuttora il 40% del mercato.
Per i cinesi un'auto costosa deve comunicare prestigio, ufficialità, imponenza. La maggior parte di esse è guidata da autisti, quindi il primo requisito è che sia comoda e abbia tanto spazio dietro, dove siederà il proprietario.
Nel 2006 arrivò la versione extended della BMW Serie 5, 14 cm in più dell'originale e 50%in più di vendite nel corso dell'anno. Poteva Volvo starsene a guardare? Certo che no, et voilà la nuova S80, 14 cm più lunga della versione europea.
I maliziosi potrebbero azzardare le solite equazioni compensative, ma certamente la realtà cinese è per ora molto, molto lontana dal concetto di auto sportiva, e non parliamo delle Smalt...